Millantanni

Millantanni è una trilogia iniziata da Antonella Doria (dopo Altreacque) nei primi anni Novanta con medi terraneo (Ibiskos Editrice, 2005), proseguita con Metro Polis (del ’97 – ’01, ExCogita Ed., 2008), conclusa ora con questo “millantare – millennio”, ideato per il volgere dell’anno 2000, ma la cui successiva stesura ha richiesto molti più anni del previsto. Antonella Doria, di Palermo, è specializzata in Scienze sociali. La vastità di tempo e spazio dei temi trattati in ognuno poemetti, ci rende consapevoli del grande impegno dell’autrice e della linea di sviluppo della sua poetica. medi terraneo, ideato già dalla prima guerra del Golfo ed iniziato ad elaborare nei successivi anni della guerra in Jugoslavia è il risultato dell’incredulità e dell’angoscia dell’autrice (nata dopo la Seconda guerra mondiale), per quelle lotte – in Europa, nel Mediterraneo, ai nostri confini – che, secondo tutti, storici e politici, non sarebbero Mai più dovute succedere dopo la pace del 1945. Invece, eccole di nuovo a riproporre secoli e secoli convulsi e caotici di guerre e sopraffazioni tra le diverse etnie, religioni e lingue del mare nostrum, italiano, arabo, greco, curdo, slavo, “rivissuti” con ritmo incalzante in sette poemetti, dove sette è quel numero che moltiplicato per quattro ci dà il ciclo lunare/femminile, e in ognuno dei poemetti termina con tre versi rivolti alle donne:

donne anfora fanno
spola
casa-fontana
(mangiano violenza come pane)
fatti
donne sempre
promettono notti prima
dell’alba

Già dalle tre “M” iniziali dei titoli di ogni raccolta, possiamo intuire che i tre poemi nascono l’uno dall’altro, sono l’uno il seguimento, l’uno la continuità dell’altro, sono il leit motiv della vita di Antonella, tutto ciò che le è rimasto dentro degli anni che ha vissuto, prima a Palermo, poi a Milano: Ziz e Lan in MetroPolis (Ziz – fiore, il nome punico di Palermo, e la radice Lanterra per Milano). Ma in tutta l’opera di questa autrice è sempre riconoscibile una perfetta estraneità narrativa: un io che riesce a scomparire nel controllo della congestione dei versi, in una sua severissima griglia interiore che le permette ogni volta di traghettare – per bravura linguistica – da un mondo polimorfo e avvolgente a un singolo aneddoto zoomato e chiarissimo, nel quale ognuno di noi si ritrova e si emoziona. Così, nel caso di Metro Polis, per quanto riguarda Milano, avremo un pezzo di teatro incastonato in una strofa, quando un giovane appena salito sul tram, apostrofa in dialetto i passeggeri, urlando di avere

ho lAiddiesse…
capitooo? Aiddiessseee
lAi-ddi-e-ssse
e
nun mme faccio persuaso
Gente come fai?
guardi e non vedi
pur’ i’ so’ di carne e
ossa nun so’ trasparente
Tocca tocc’ a cca
senti…

È il caso di notare gli straordinari accorgimenti ortografici che l’autrice sceglie, per rendere drammatica all’udito e alla vista, la confessione disperata del ragazzo: quel lAidiesse senza apostrofo, con la elle minuscola e la A maiuscola, ci rende subito consapeturale nella quale è avvolto. Che dire di quel Gente come fai? al voli del terrore che quel termine trasmette e dell’ignoranza culsingolare, guardi e non vedi / pur i so’di carne e / ossa… dunque, la massa dei passeggeri che diventa una singola unità, altra da sé (altra dal ragazzo infettato), che pure si definisce uguale a loro. Uguale a loro che però sono ignoranti, ignari, inconsapevoli di cosa possa significare una simile condanna. Parlandomi di sé, Antonella mi confidò una volta di essere cresciuta senza mamma e che il padre da piccolissima l’aveva messa in un Collegio per “signorine” e andava a trovarla ogni settimana. Questo trauma la rese ribelle introversa ipersensibile e a scuoJa, alle elementari trovò conforto istintivamente nella poesia, e della poesia si interessò sempre, come se avesse inconsapevolmente intuito che le parole in versi erano più potenti, più forti, più “vere” di quelle in prosa. Cominciò a imparare le poesie a memoria e a saperle recitare benissimo. Andava a leggere per conto proprio sull’antologia i testi che la maestra avrebbe spiegato più in là nell’anno scolastico, chiedendole di farlo subito perché quella tale poesia le era particolarmente piaciuta. Un caso unico. Una “fame” di comunicazione che sicuramente riempiva un vuoto. Non a caso dunque, per Antonella Doria la parola è salvezza. La parola è taumaturgica. La poetessa vive le parole con tutti i sensi contemporaneamente: sono interattive, senza punteggiatura, fluiscono, e lei ci nuota dentro, seguono un suo particolare ritmo interiore, e la deliziano, Antonella gioca con il corpo delle parole come se fossero di materia: transiti veloci, paranomasia, sinestesia, diacronia e sincronia, l’accostamento elencativo dei ter-
mini etc.

mani mari di versi
attraversati si
toccano si fondono
confondono
sensitive sembianze
forme figure
fiumane in fuga
(medi terraneo)

Un io che riesce a scomparire nel controllo della congestione dei versi, appunto, come se la forza, la pregnanza e la musicalità delle parole stessero scegliendo lei come canale per venire domate sulla pagina, buone e ben allineate. (Basta scrivere della poesia di Antonella Doria perché le parole si mettano a vivere di vita propria anche per noi). Sempre a Milano, dunque in Metro Polis, un barbone, quasi un lupo, tanto lo descrive estraneo, ma che, proprio per questa nostra paura, con l’ultimo verso, con il dettaglio del gesto istintivo, infantile (?) della mano, ci fa vergognare di noi stessi:

[…]
uomonero lupo
mannaro (rappezzato scarpe
senzalacci) s’accuccia
caldo odore sotterraneo
portici paghi di catrame
derelitti cartoni d’imballaggio
tuttaddosso il mondo l’attimo
stretto in mano

Per Ziz (Palermo), gli ultimi versi di questa straordinaria descrizione:

degradazione di luce distanza dilata
rischio a perdersi in giri volute
grate sagrati inferriate forme
fondali tonde prospettive
scenografie surreali
insensate

Ma, molte altre le descrizioni di palazzi, di chiese, racconti di usanze locali, come quella di origine greca (nell’antica Atene) di scrivere il nome di una persona da esiliare su una tavoletta di coccio:

(Sul coccio scrivo il tuo
Nome…)

e noi capiamo subito di chi si tratti.

O l’accenno al Serpotta, grande scultore di stucchi del Seicento (v. gli oratori di San Lorenzo, Santa Cita, etc), che si firma Sirpuzza (piccola serpe), cioè “lucertola” che, come lui, sta sempre sui muri; o al poeta maledetto del ‘500 palermitano, Antonio Veneziano, che per amor di Celia in distici cambiò cambiò Arno in Orèto. Con questi aneddoti Antonella ci fa vedere con i suoi occhi e la sua conoscenza quell’amata-odiata città. A proposito del piacere delle parole che si rincorrono sempre più veloci e di un verso di chiusura impagabile nell’essere la sola rima del poemetto, nel senso di definitiva compiutezza che trasmette, come un vero traguardo: (ora BASTA, non c’è altro da dire!)…

frutto acerbo cedro lunare
verdello la piega il passo il segno
saggio indolente in questa
spanna invisibile sonnolenta
distratta eterna lotta annega
in mare di terra ragioni
religioni il verde cupo
di aranci limoni


Ma sarà anche arrivato il momento di cominciare a parlare del terzo poema inedito, dedicato «a Pierluciano Guardigli amico carissimo», che era stato tanto entusiasta di Metro Polis, da scrivere che non si poteva fare di meglio. Ahimè, non fece in tempo a leggere quest’ultima raccolta. Ogni strofa di Millantanni è di ventun versi e qui, molto spesso, come per rendere la griglia della propria scrittura sempre più severa, ma al medesimo tempo, ottenere un poema sempre più unito e fluido, le ultime parole di una strofa, sono anche le prime a essere ripetute nella successiva. Prima di riportare un esempio di quanto ho appena detto, vorrei ricordare il senso dei primi versi della prima strofa del poema, per far capire al lettore di cosa si tratti, nonché il pessimismo, la disperazione della nostra autrice nel rendersi conto che ormai le parole non dicono più niente. Continue menzogne di media, e Tv, delle autorità, e del potere hanno svuotato le parole di senso, le hanno abusate, gonfiate in un costante millantamento, trasformate in esclusivi strumenti per quegli Ego che pretendono e vogliono tutto:

A margine del verbo
a margine del senso
corpi premono in schiavitù
sgomento fugace seme
[…]
contro l’inesprimibile contro
l’oblio il silenzio cerca
d’Acropoli pietre
comporre

Questo allora il compito del poeta: trovare la giusta collocazione di quelle antichissime pietre (e parole?), che nella loro razionale, geometrica disposizione sono state la nostra civiltà. Il fatto che si sia stati derubati delle parole, che ormai si parli solo a vanvera, che le parole, un tempo taumaturgiche non siano più un vero mezzo di comunicazione, che ognuno parli per ascoltare se stesso e non l’altro, tutti i diversi aspetti di questa nostra nuova, pericolosissima condizione, ci imprigionano, non ci permettono più di essere consapevoli e di comprendere: ci riducono schiavi, esiliati dentro le nostre stesse esistenze. Chi più di Antonella Doria, che da bambina, si salvò proprio grazie alle parole, vivendole come rifugio e salvezza contro l’abbandono e la perdita di se stessa, può rendersi conto dell’inferno nel quale stiamo silenziosamente, inconsapevolmente
precipitando? Tutta la prima sezione di Millantanni è percorsa da questa indignazione, dall’incredulità e dalla sofferenza di questo stato di cose. Ma anche in questa circostanza, il fatto di scriverne, di prendere coscienza del fenomeno e di tutte le sue possibili conseguenze, l’aiuta poi ad avere un po’ di speranza a proposito del nostro riscatto, del fatto che in futuro riusciremo forse a ritrovare noi stesse. Ma ovviamente, dopo qualcosa di grande e di tragico per tutti noi. Per questa ragione, inizierei col citare proprio la seconda parte dell’ultima strofa della prima sezione del volume:

[…]
Vedrai…
a l’orizzonte capovolta
la Terra sorge
sorge una nuova inquieta
moltitudine
esistenza nuda di corpi
erranti verso
l’inverno viene
a margine del verbo
a margine del senso
tumultuoso un gran fiume
Vedrai……

Testo, che nella forma verrà poi ripetuto, molto simile, sempre con quel «Vedrai…» e quello stesso tono di saggezza quasi intimidatoria:

Vedrai…
ritorna Mnemòsyne
ancora intatto in bocca
un seme tiene… viene
nel passo che serba la forma
il colore del segno segue
a occhi chiusi il rivo il verso
il vento come la prima volta
come la prima aurora
a dire il mondo…

Una poesia quasi tutta di pensieri. Pensieri, considerazioni premonitrici (quasi profezie), sempre efficaci, plausibili, comprensibili anche nella loro totale negatività:

[…]
poeti profeti poveri
appestati combattono
14
contagiano l’inganno del
tramonto inconsapevole
incurabile miracolosa questa
peste pulsioni pensieri
rode risparmia i corpi
il limite supera… eppure
catene solamente essi hanno
da perdere

E l’inizio della strofa successiva (con quel «perdere» subito ripreso) che, in questi giorni di fine ottobre, appare profetico e ci fa subito pensare a Genova e a Parma:

perdere la notte
sotto stellate tenebre
limaccioso minaccioso
s’avvia sale il fiume a
sommergere labbra occhi
anime assetate d’intensa
gioia

Con questa magica concordanza, quando la comprensione di cosa sia la vita e il destino si compenetrano, di fronte alla spontanea, naturale “verità” di una simile poesia, non si può che chinare il capo con un pensiero di gratitudine per chi l’ha scritta.

1.lapestedell’oblio 

(2000–2005)

4

Introibo 

tumultuoso un gran fiume 

verso l’inverno viene 

a piedi ciechi folli mercenari 

di peste d’oblio appestati viene 

la notte inquieta nelle palpebre 

una sola moltitudine 

insegne menzogne portano 

seguono inseguono in marcia 

in avvicinamento verso dove… 

( forse tutto era niente

a piedi ciechi folli molti 

in marcia incatenati ronzini 

ronzinanti tutti 

danzanti tristemente 

tumultuoso un gran fiume 

(devastante inondazione ) 

incontro al raggioverde viene 

a l’orizzonte estremo incontro 

dove capovolta la 

terra sorgere 

vedrai… 

Cieli altissimi 

retrocedenti 

lumaca 

alle vette arboree, e mai del tutto in 

tenebre, raro che stellati, urgervi incontro Antonio Pizzuto

6

 

2.camminando verso 

(2005 – 2010) 

ai figli che verranno… …

16

17 

Vieni e non ti negare, 

poiché in conflitto siamo con tanto male. 

Vedrai… 

batte ancora il cuore 

in pancia alla terra 

selvaggio fra il fugace 

e l’eterno più pesanti 

del caos sempre vedrai corpi nel tempo in carne e ossa a margine sempre resistono restano sul 

confine feroce sulla soglia fra armonia e orrore 

al dolore inevitabile al 

silenzio necessario dell’oblio a perdersi resistono in deserti della mente megalopoli di dòlmen… (bucano i cieli ) dove pietre bestie animali intelligenti e parassiti pensanti tutti sovrasta indolore l’errore del 

vitello d’oro 

… 

Prima che sangue di drago protegga [l’avversario 

questa mano cadrà dentro il fuoco. O mia parola, salvami! 

Ingeborg Bachmann

18 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

c

Lorem ipsum dolor sit amet, unum adhuc graece mea ad. Pri odio quas insolens ne, et mea quem deserunt. Vix ex deserunt torqu atos sea vide quo te summo nusqu.

[belletrist_core_image_gallery images="538,539,540,541,542,543,544,545" image_size="80x80" behavior="columns" columns="4" columns_responsive="predefined" space="tiny"]