Poesie e scrittureConversazioni sull’orizzonte

Conversazioni sull’orizzonte

‘’Lettura notturna. Lettura emotiva, nessuna pretesa di critica letteraria. Le parole nella loro successione asintattica non racchiudono il senso ma sono un mezzo (come una corda gettata dalla scialuppa al naufrago – per rimanere in tema) un mezzo per arrivare al senso. Di qui la sospensione del respiro, l’incremento, l’assonanza come ricerca per arrivare al primo anello della catena. Poesia come modo per strappare il senso della vita, di vincere l’angoscia del non-senso, del vuoto. La pacificazione, rara, è nella contemplazione del paesaggio, della natura-madre. Sono i momenti in cui il senso si compie.Così ho sentito leggendo tutte di seguito le tue poesie, sospendendo il pensiero critico e ascoltando le mie emozioni.’’

Rossella Nardò su Conversazione sull’orizzonte

Andrea Rompianesi scrive del libro di Antonella:

“Forse davvero l’assenza torna presenza come negli spiragli delle citazioni; “Capita   a volte/ in un agosto come questo/ con il cielo azzurro/ corpi clandestini…”, forse ancora intaglia la percezione di una strategia che l’afflato civile denuncia nel ritmo volutamente franto, spezzato. E’ il segno della condivisione operante lo smottamento linguistico nell’esito poetico “Conversazioni sull’Orizzonte” di Antonella Doria. L’epicentro è nel tratto abilitato alla costruzione del verso, nella traccia che concede lo spazio bianco di pausa all’interno stesso del passo, nella deriva dell’interpunzione aderente ad una sillabazione materica, nei tratti d’interposti elementi a segnale d’interscambi fra detriti e corrispettivi stralci di dolore. E’ diceria di Luna che suona a condono e congedo, a insenatura talmente scolpita da risiedere in vento, in golfo, dove l’acquisizione della struttura nominale attende l’intervento dicibile del taglio a corrente, a flusso instabile, come “silenzio d’una polvere/ oro   inquieta frantuma/ pensieri   l’ora che dura/ nel passo   nel pianto”. Allora la danza è notturna; Antonella Doria compone le passioni operose, le tramature interroganti, gli slanci reiterati, attraverso la domanda cosmica a contatto con le arditezze del coraggio. Di nuovo l’iterazione si fa paziente e sapiente riverbero ritmico in contrazione di verso, in ritmo infranto sulla soglia di una dicitura esatta, compiuta e nello stesso tempo aurorale. Nel prima di tutto o nel dopo tutto le trabeazioni linguistiche accennano ad una compostezza raggiunta nell’equilibrio dei tempi, nell’esegesi dei rimandi, degli omaggi ai tanti autori, agli artisti che hanno sperimentato esili e travagli. E il corpo a corpo è intimo, intagliato nelle protuberanze formose della condizione terrena, nel viatico accenno alla esclusione, alle soffocate dimensioni del bisogno, della persecuzione. Il ritrovarsi è specchio di un umanesimo desto, percosso ma reattivo, episodico trauma adibito a scenario dove quella vita intestina rimuove filtri e ancoraggi, giungendo alla fonte del mito, alla quotidianità del passaggio. Comporta attenzioni empatiche il fondersi di parole qualora acuisca il segno l’evidenza dello slancio al rimando, alla evocazione nel riferirsi, ad esempio, ai destini di poeti come Mandel’stam e Achmatova, di artisti come van Gogh. L’osservazione sulla terra natale, costante riferimento dell’autrice, quello spasimo di Palermo, per citare Vincenzo Consolo, quella “materia corporea   fiumana/ viva inerme   (bocche aperte/ al grido) né   l’aria nera   stretta/ pure corse oscura   di bocca/ in bocca   la freccia la paura”; così la fiumara, i pendii, le fiamme mugghianti, l’acquachiara, l’appiglio, il ritmo e il rito. E’ un comprimersi linguistico d’inventiva strutturale ove due versi concedono quasi la fonetica solida di una sintassi segnaletica “pinimarittimieplumelie/ eucaliptipalmeoleandri”, nominazioni componibili in alternarsi di variabili. Anche le volumetrie vogliono evocare la possibilità, l’opzione di pagine mai scritte che si traduce in rilievi amari: “Destinazioni d’Uso/ Servizi   non conteggiati/ ma anche…pungoli/ Desideri   assilli persuasi/ Prestiti   a fondo perso/ (Indifferenze   metropolitane)”. C’è, nella poesia di Antonella Doria, quasi un desiderio mimetico, una capacità d’inserirsi nello stesso dettato della composizione linguistica, un rapporto intimo con le parole, come giustamente ha osservato Giulia Niccolai. Il testo si dice e ci dice la volontà dell’autrice: “cerco   fra   massimi sistemi/ qualcosa   proprio rasoterra/ uno sfogatoio   una turca   o/ latrina   una udienza pubblica/ una lingua arcaica   forse”. Se poi avevamo avuto come uno dei massimi esempi della poesia del secondo Novecento un “Paesaggio con serpente” di Franco Fortini, Doria ci propone ora un “Paesaggio con Figure”, un’architettura dove la dilatazione utilizza ancora l’interpunzione per assecondare cadenze nel significante, quando si racconta, quando la partecipazione emotiva si traduce “Per certi versi… …meravigliosi/ gigli… nascono crescono da/ amori carnali   carni impastate”. Antonella Doria imprime allora al verso la direzione maieutica di una vera dichiarazione di poetica: “Per certi versi… …pensieri/ nella notte   (zampettine…/ d’albanella pallida alla spiaggia/ al mattino)   quasi scrittura   serve/ una traiettoria   a seminare indizi”. Quegli indizi che portano alla esatta dimensione del poetare.”

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